Pensiero tipologico

Un requisito fondamentale per sapere come valutare e progettare correttamente i segni grafici di un marchio.

Norberto Chaves, autore AutoreNorberto Chaves Followers: 3937

Glenda Torres Guizado, traduttore TraduzioneGlenda Torres Guizado Followers: 13

Marina Cominetti, editor EditingMarina Cominetti Followers: 5

Se ho un appuntamento con un collega allʼaeroporto, per localizzarlo tra la folla, farò attenzione solo agli uomini e, dato che il mio collega è un uomo maturo, non guarderò i giovani. Quindi, sarà più veloce identificarlo tra tutte le teste grigie che rilevo in lontananza. Parliamo del comportamento spontaneo della mente: la sua capacità di classificazione che apre la strada per ottenere lʼaccesso a ciò che cerca. Ogni registrazione di unʼidentità individuale inizia con il rilevamento della tipologia. La tipologia (in termini di logica: la classe) porta le prime caratteristiche dellʼindividuo, il più generale.

Nella comunicazione grafica accade esattamente la stessa cosa. Prima di scoprire il film pubblicizzato su quel poster, riconosco da lontano che si tratta di un annuncio cinematografico e non, per esempio, di moda. Ogni messaggio è preannunciato nel suo genere, nel codice grafico corrispondente. Il messaggio senza genere, non inscritto in una certa lingua, è un messaggio lento, ci vuole più tempo per decodificarlo. Il genere – o tipologia – ci anticipa l'informazione che consente al ricevitore, prima di leggere il contenuto del messaggio, di selezionare il paradigma interpretativo appropriato.

Infine, accade allo stesso modo con lʼidentificazione aziendale: il marchio di uno studio legale non può rispondere alla tipologia di un marchio di una compagnia petrolifera. I tipi di marchi identificano lʼindividuo prima che la sua marca in particolare venga letta.

Il processo di codifica è analogo al processo di decodifica: ogni pregettazione di un marchio inizia necessariamente con lʼidentificazione del o dei tipi rilevanti. La prima fase del design di un marchio è verbale: “questa azienda ha bisogno di un logotipo tipografico puro e un simbolo iconico, o, in mancanza, astratto”. Con questa “esitazione” nella frase precedente, vogliamo indicare che le linee guida tipologiche non sono sempre assolute. Il grado di condizionamento della tipologia è variabile in base a una serie di fattori quali:

  • Il settore: tipi di codici settoriali da rispettare o addirittura da evitare.
  • Il nome: lunghezza e struttura del nome istituzionale.
  • Condizioni di lettura: distanze, velocità, supporti.
  • Architettura del marchio: unicità o diversità di marchi articolati.
  • ecc.

Ma, anche nei casi di maggiore libertà, ci saranno sempre tipologie più efficaci di altre, anche se non possono essere determinate in anticipo. In questi casi, un saggio tipologico iniziale, ovvero un campionamento di soluzioni alternative generiche (con o senza sfondo, con o senza un simbolo, con o senza accessori), senza entrare nel dettaglio, farà “saltare agli occhi” la tipologia più adatta.

In breve, per quanto perfetto, il design del simbolo non può mai salvare un marchio tipologicamente sbagliato. Vediamo alcuni esempi presi dalla realtà:

Lʼazienda ha capito, durante lʼuso, che il marchio non era conforme alle loro esigenze di comunicazione, vale a dire alla necessità di un simbolo in senso stretto (come il simbolo della SHELL) e di conseguenza fu costretta a cambiare la tipologia, conservando parte del disegno originale per evitare così una rottura totale (ma, com' è evidente, “mai le seconde feste sono state buone”). Il modo corretto sarebbe stato inquadrare la tipologia giusta fin dallʼinizio, il che non era affatto difficile.

Vediamo ora il caso GAP:

Trovare la soluzione non riguarda solo la creatività, ma il buon senso: sviluppare capacità tassonomiche o di classificazione e saper scegliere la tipologia giusta prima di progettare. E la selezione tipologica inizia confrontando lʼentità (il suo profilo e le sue condizioni di comunicazione) con le mega tipologie di marchi; che sono sei e solo sei.

Diagramma di mega-tipi di marchio (Cassisi, Belluccia, Chaves).

In ognuna di queste “mega tipologie” si visualizza una tipologia interna con varie sfumature, consentendo altre sottoselezioni che definiscono il marchio con maggiore precisione e adeguamento al caso. E, ovviamente, tra questi mega tipologie possiamo individuare tipologie ibride le cui identità generiche, per così dire, “oscillano” seguendo lo sguardo che da priorità ad una o altra caratteristica. Un “logotipo con fondo”, a seconda delle caratteristiche di quello sfondo, può essere più vicino al “logo-simbolo” e un “logotipo con accessorio”, a seconda delle caratteristiche di quellʼaccessorio e del suo utilizzo, può essere simile alla tipologia “logotipo con simbolo”.

La ricchezza delle possibilità è enorme e il lavoro secondo il metodo di eliminazione progressiva di tipologie irrilevanti consente di avvicinarsi rapidamente alle tipologie e sottotipologie di maggior successo e di testare più da vicino le varianti interne. Quindi, la qualità finale aumenta.

Gran parte dei “brutti marchi” non sono dovuti al fatto che il loro design formale è di scarsa qualità, ma semplicemente perché è sbagliata la tipologia: senza una precedente analisi tipologica, il designer ha iniziato a progettare i segni seguendo le ricette oppure i pregiudizi che lo hanno spinto per una tipologia e così, senza una riflessione, scelta per buona.

Una volta individuata la tipologia giusta, dovremo considerare un altro livello molto ricco nelle varianti: lo stile. Due marchi della stessa tipologia possono rispondere a stili grafici opposti. E lo stile anche identifica. Meglio dire, affianco alla tipologia, lo stile è la caratteristica che più chiaramente parla dellʼidentità, molto più allusivo dei possibili contenuti semantici del segno. Ma questo è un altro argomento.

Dopo la pubblicazione di questo testo, Luciano Cassisi si è addentrato nella caratterizzazione dei tipi di marchi nel suo articolo Come scegliere il tipo di marchio più appropriato.

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La qualità grafica Il dilemma sui criteri di valutazione della qualità: formule o formazione?

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