Non giudicare il mio disegno!

Il tabù della critica interprofessionale: insicurezza, paranoia e rifugio nel corporativismo.

Norberto Chaves, autore AutoreNorberto Chaves Followers: 3938

Marina Cominetti, traduttore TraduzioneMarina Cominetti Followers: 5

Vincenza Branca, editor EditingVincenza Branca Followers: 1

In alcuni settori professionali della pubblicità e del disegno grafico circola una sorta di regola deontologica che chiede il silenzio sul lavoro dei colleghi. Questa regola parte dalla presunta solidarietà forzata tra pari. Il professionista deve essere leale con i suoi colleghi e non deve mai criticare il loro lavoro, indipendentemente dalla qualità.

Ma chi sono i più idonei tra i professionisti se non quelli con una specializzazione e quindi con le capacità per rilevare i difetti e le virtù dei lavori dei propri colleghi? Applicando, infatti, la regola di cui abbiamo parlato prima, per criticare una campagna pubblicitaria, gli unici autorizzati sarebbero, ad esempio, i medici, gli avvocati e gli ingegneri, a patto che vengano dispensati dallʼimpegno di lealtà verso un collega che non lo è.

Questa convinzione e il comportamento che ne deriva, rappresentano quindi un serio problema per la società: unʼarea chiave del suo sviluppo (la comunicazione) è privata del ruolo di trasformazione e ottimizzazione della valutazione della qualità e dell'individuazione della “cattiva prassi”.

La critica, dʼaltra parte, non è una pratica esterna, aliena o facoltativa: è una parte intrinseca del processo di progettazione. Non è disegnare, una sequenza di critiche e correzioni a ciascun progetto precedente, fatte dallʼautore stesso o dai suoi consiglieri per ottenere il massimo adattamento al programma?

La critica, inevitabile per lo sviluppo del progetto, non è limitata al design stesso, ma deve essere rivolta anche verso il lavoro degli altri. Questo è il caso degli interventi su un marchio quando ne esiste già uno. Una parte fondamentale di questo intervento è la diagnosi precedente di questo marchio. E nella maggior parte dei casi, quel marchio precedente proveniva da un designer. Che cosa fa allora il professionista? È inibito dalla lealtà verso quel collega? No: deve indicare i difetti del marchio esistente come condizione tecnica inevitabile per affrontare il nuovo disegno. E in molti casi, questi difetti derivano da errori commessi dal grafico precedente. Vale a dire: il patto del silenzio è tecnicamente disfunzionale e deontologicamente sleale verso il cliente.

Il professionista che, inoltre, esercita responsabilmente le critiche sul lavoro degli altri, non fa altro che mettere in pratica ciò che ha appreso nellʼautocritica e, quindi, trasmettere una valutazione seria del pezzo analizzato. Compito in cui tutti i professionisti dovrebbero essere formati. Raggiungere la verbalizzazione dei parametri di valutazione corretti accelera i processi di progettazione e aumenta la qualità del prodotto finale.

La natura paradossale della “regola del silenzio” è evidente prendendo in considerazione unʼistituzione assolutamente legale ed essenziale della libera concorrenza: la competizione. Qualsiasi concorso di servizi professionali, se correttamente organizzato, istituisce una giuria di esperti del settore, tra cui i professionisti con la massima autorità. 

Nel caso, ad esempio, di un concorso di disegno grafico, nella giuria ci saranno designer di alto livello che giudicheranno i loro colleghi con obiettività. Scriveranno un atto che dichiara le virtù del progetto vincente e, di conseguenza, evidenzieranno i limiti o gli errori dei perdenti. Molto probabilmente, inoltre, le loro decisioni saranno rese pubbliche, con un semplice criterio di una gestione trasparente.

Se il rifiuto alla critica interprofessionale è coerente, qualsiasi designer dovrebbe essere inibito dallʼessere parte di una giuria in cui viene giudicato un collega; ma il collega, a sua volta, se non venisse giudicato da esperti, si asterrebbe dal competere. La norma, quindi, genera un paradosso. E questa è una prova della sua falsità.

Qual è, allora, lʼorigine di questa contraddizione posta dal “tabù della critica”? Non è difficile da rilevare. Riguarda la sopravvivenza di unʼideologia stabilita dalle corporazioni medievali: il corporativismo, un concetto attuale e in uso fino ad oggi. Il cui patto del silenzio prescrive: “Non mi tradire ed io non ti tradirò; con il mio silenzio compro il tuo”.

In una società che si vanta di essere democratica, dove il libero esercizio di opinioni e critiche è uno dei suoi pilastri, un tale patto di silenzio non rappresenta solo un anacronismo, ma una pratica assolutamente antidemocratica, che è anche dannosa per la comunità.

Il professionista non solo ha il diritto di criticare ma anche lʼobbligo di farlo. La sua lealtà non è quella di impegnarsi con la corporazione - come nel Medioevo - ma con la società che serve e in cui vive. Un servile professionista è un traditore della sua società.

Proprio come colui che crea si espone alle critiche degli altri, il critico è esposto a essere confutato e i sistemi di valori sono messi in gioco e rivalutati. Il silenzio, “lʼomertà” è un virus letale che lascia la società orfana da parametri e gettata nel caos di “qualsiasi cosa va bene”.

Nel formulare una critica fondata e motivata, il professionista si dissocia dalle sue inclinazioni personali e assume la responsabilità di sviluppare livelli crescenti di obiettività, perfezionando, in questo esercizio, parametri di validità generale. FOROALFA è nato e cresciuto con questa vocazione e apre uno spazio in cui tutti impariamo da tutti.

In realtà, dietro presunte accuse del gruppo, opera una sfacciata aspirazione allʼimpunità, per poter commettere errori senza il rischio di un processo: “Non ti critico, non mi critichi e i clienti si arrangiano”.

Molti anni fa ho pubblicato una critica di tre annunci istituzionali che contenevano serie deviazioni nella loro etica sociale: il discorso di unʼistituzione governativa era, infatti, privo di rispetto per il suo governo.

I tre annunci erano stati realizzati dalla stessa agenzia pubblicitaria, un fatto che non conoscevo poiché di solito la pubblicità delle realtà pubbliche non è firmata dalle agenzie. Il suo presidente, un mio collega molto cordiale con cui ho realizzato dei lavori, mi ha invitato ad una cena in cui ha espresso la sua preoccupazione. Questʼuomo, accecato dal corporativismo, non poteva nemmeno pensare che le mie critiche fossero oneste. E mi ha chiesto se avessi qualcosa contro la sua agenzia. Supponeva che fossi così mediocre da usare la mia parola per screditare un collega a favore degli altri.

Chi dubita, a priori, dellʼonestà di un critico, nonostante il supporto delle proprie argomentazioni, mette in evidenza la propria disonestà. Una risposta matura, colta e leale da parte sua sarebbe stata quella di invitarmi a un incontro di lavoro con i suoi creativi per scambiare idee su una valida retorica delle comunicazioni istituzionali.

La storia della cultura ha avuto nella critica uno dei pilastri dellʼautoregolamentazione, almeno dai tempi di Socrate. Musicisti, scrittori, pittori, filosofi e scienziati hanno pubblicamente e per secoli esercitato la loro responsabilità critica.

Invece, la nostra epoca sostiene lʼaccettazione acritica di ogni cosa consumata: «Just do it». E, anche su questo fronte, avanza nel suo declino irreversibile... con i corporatisti suoi alleati incondizionati.

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